Riduzione nazionale ed internazionale della spesa militare, con creazione di nuovi percorsi di disarmo
L’umanità si trova a un bivio in cui le decisioni politiche sui bilanci della difesa determineranno la traiettoria delle molteplici crisi in cui siamo immersi. Disgraziatamente in questo momento i Governi stanno scegliendo di aumentare drasticamente i fondi armati (l’aumento del 6,8 percento nel 2023 è stato il maggiore su base annua dal 2009, spingendo il totale al livello più alto mai registrato dal SIPRI) e, di conseguenza, anche il pericolo di una guerra globale. La strada da seguire è un’altra: chiediamo che il governo italiano, l’UE e tutti gli Stati riducano i propri bilanci armati. Il raggiungimento del 2% del PIL in spesa militare è un feticcio (senza nemmeno motivazioni militari) utile solo a far crescere i guadagni del complesso militare-industriale-finanziario (non a caso si chiede che un quarto di tali fondi sia usato per comprare nuove armi). L’aumento di risorse per le aziende militari a livello UE non porterà ad una difesa comune (che è una scelta politica), a vantaggi economici ed industriali (il passato lo dimostra) o a maggiore sicurezza: il raddoppio della spesa militare globale dall’inizio del Millennio è coinciso con un drastico aumento delle guerre e delle vittime civili.
Con una prospettiva radicalmente opposta noi chiediamo – insieme a tutte le campagne globali su questo tema, di cui siamo parte – sforzi reali per il disarmo globale e la riduzione del commercio di armi. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite deve convocare una quarta sessione speciale sul disarmo (l’ultima è stata realizzata oltre 35 anni fa): tutti gli Stati hanno trascurato la responsabilità e il dovere di perseguire il disarmo nel quadro delle Nazioni Unite.
Utilizzo delle risorse liberate dalla spesa militare per spese sociali, ambientali e per il rafforzamento degli strumenti di pace
In questi anni sono aumentate la povertà e le diseguaglianze. Il servizio sanitario nazionale è stato definanziato e 4 milioni di italiani rinunciano all’assistenza sanitaria perché non in grado di pagarsi le cure. La lotta al cambiamento climatico segna il passo mentre il Paese è sconvolto – contemporaneamente – da alluvioni e siccità. Il sistema dell’istruzione è in grave crisi, sia per quanto riguarda le strutture e le infrastrutture scolastiche sia per le condizioni sempre meno incentivanti del lavoro del personale, docente e non docente. Di fronte a questa situazione utilizzare una parte dei risparmi delle spese militari per dare risposta ai veri bisogni del Paese è una priorità sempre più impellente. Con il taglio del 20% delle spese militari potremmo mettere in sicurezza 700 scuole, tagliare del 30% le liste d’attesa per le visite mediche, finanziare interventi per la lotta al cambiamento climatico e la riduzione della povertà energetica, e sostenere gli impegni presi in sede internazionale per aumentare i fondi per la cooperazione allo sviluppo. Potremmo raddoppiare i fondi per la non autosufficienza, garantire un’accoglienza dignitosa e l’integrazione a 40mila migranti, ripristinare i fondi tagliati alle università solo qualche mese fa. Investire sui diritti delle persone significa investire sulla pace, sulla solidarietà, sulla coesione sociale, su un’economia di pace e non su un’economia di guerra. Non bisogna portare le spese militari al 2% del PIL – come vuole la NATO- ma portare all’8% del PIL le spese per la sanità, al 5% quelle per l’istruzione, al 5% quelle per l’ambiente.
Tassare gli extra profitti dell’industria militare
Il forte aumento delle spese militari ha portato profitti record all’industria bellica. Nel 2023, le prime 10 aziende italiane esportatrici di armi hanno incassato utili netti per oltre 1 miliardo di euro, con un aumento del 45% rispetto all’anno precedente l’invasione dell’Ucraina. Un incremento che si aggiunge a quello già registrato nel 2022: +68%. In due anni di escalation bellica, il settore ha accumulato 830 milioni di euro di “maggiori profitti”, con un trend che va ben oltre l’ordinario funzionamento del mercato. Tutto questo nonostante la spesa pubblica per le armi abbia un impatto economico e occupazionale più basso rispetto a un pari investimento in settori come la sanità, l’educazione e la protezione ambientale. Per restituire alla collettività parte dei finanziamenti pubblici dirottati sulle armi, chiediamo che il governo istituisca una tassa sugli extra profitti del settore. Perché nessuno possa beneficiare, anche solo indirettamente, delle stragi di civili.
Diminuire i fondi destinati alle missioni militari all’estero
Dal Mar Rosso al Golfo di Guinea, l’Italia è sempre più impegnata in missioni militari a protezione delle rotte e degli interessi del gas e del petrolio. Quest’anno, il governo spenderà circa 840 milioni di euro (pari al 60 per cento del budget per le missioni militari italiane) in nome della “sicurezza energetica”. Una militarizzazione delle fonti fossili e delle aree di crisi che aggrava l’emergenza climatica e aumenta il rischio di escalation. Chiediamo di ridurre i fondi per le missioni militari, tagliando in particolare le operazioni a tutela degli interessi fossili e quelle che non hanno una effettiva finalità di peacekeeping.
Aumentare controlli su influenza indebita dell’industria militare su bilancio ed export militare
I settori della difesa e della sicurezza sono un terreno fertile per influenze illecite. Con budget enormi e stretti legami con la politica, accompagnati da alti livelli di segretezza e complessità, questi settori risultano essere particolarmente permeabili alla corruzione, ma nonostante gli evidenti fattori di rischio le normative di controllo risultano essere inadeguate.
Occorre dunque definire un processo chiaro e regolare di pubblicazione e revisione di una strategia di difesa nazionale con la partecipazione di tutti i soggetti interessati (compresa la società civile). Inoltre serve regolamentare le attività di lobby, ampliare l’ambito di applicazione delle norme che disciplinano il cosiddetto fenomeno delle “porte girevoli” (così prevenendo i conflitti di interesse e riducendo le possibilità di influenze illecite), aumentare, e non rendere più opaca come sta invece facendo il Governo cercando di cambiare la Legge 18/90, la trasparenza sul processo di autorizzazione dell’export militare.